L’articolo presentato è uno stralcio della
relazione dal titolo “Che cosa ci fa conoscere la bellezza”, che l’autore ha
tenuto durante il Convegno internazionale sul tema “Il destino della bellezza
–La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche” organizzato dal 17 al
19 aprile 2012
a Mosca dall’Università San Tichon insieme all’Università Cattolica di Milano,
con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca.
Che
cosa ci fa conoscere la bellezza? La domanda può essere intesa in due modi
diversi ma complementari: essa si riferisce in primo luogo a quelle condizioni
dell’esperienza che ci permettono di giudicare qualcosa come “bella”, e più in
generale ci fanno conoscere la realtà della bellezza. Ma in secondo luogo
quella domanda si riferisce a ciò che la bellezza stessa ci permette di
conoscere, o meglio quella specifica conoscenza della realtà – di noi stessi e
del mondo – che acquisiamo grazie
alla bellezza.
Tutto
il problema della bellezza nella nostra epoca può essere sintetizzato nel fatto
che i due sensi di questa domanda sembrano essere ormai definitivamente
divaricati l’uno rispetto all’altro. Di modo che nell’esperienza soggettiva del bello
(in quello che da Kant in poi chiamiamo il “gusto” del bello) si indebolisce,
fino a perdersi, ogni pretesa di conoscenza; e a sua volta la conoscenza
“oggettiva” delle cose si identifica progressivamente con la loro misurabilità
e la loro costruibilità. Per questo vale la pena riaprire una questione
che sembrerebbe essere già stata risolta e archiviata, vale a dire: qual è la
dimensione conoscitiva del bello? Ci permette esso di allargare la nostra
conoscenza del mondo e di noi stessi o dev’essere confinata all’interno di un
sentimento soggettivo?
La
risposta più diffusa a tale questione nell’epoca contemporanea è che la
bellezza è segnata da una radicale impossibilità
conoscitiva. E questo avviene proprio nel momento in cui si afferma
definitivamente una tendenza tipica del
pensiero moderno, secondo la quale il bello non può più essere pensato come una
caratteristica dell’essere (quindi in rapporto con la verità), bensì come una
rappresentazione tutta interna al soggetto umano. Questa rappresentazione sta
alla base dell’“estetica”.
È
significativo che l’inventore di questa disciplina, Alexander G. Baumgarten,
nel 1750 scrivesse che «la bellezza della conoscenza» è «un effetto prodotto da
colui che pensa in modo bello, né più grande né più nobile delle forze vive di
cui quest’ultimo dispone». Un principio che Kant riprenderà nella Critica del giudizio(1790),
determinando il canone di tutta l’estetica successiva: «Per distinguere se una cosa
è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante
l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse
congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di
piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di
conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo principio
di determinazione non può essere se non soggettivo»,
sebbene non in senso arbitrario o relativistico, ma universale.
La
controprova di questo sta nel fatto che per Kant quando affermiamo che qualcosa è bello
non ci interessa affatto l’esistenza dell’oggetto che giudichiamo bello, ma
solo il sentimento di piacere prodotto in noi dal gioco armonico tra le facoltà
della nostra mente (sensibilità, immaginazione, intelletto). Nell’esperienza
della bellezza non è la ragione che si apre ad accogliere l’attrattiva
dell’essere o il fascino del mondo (questo per Kant sarebbe solo “piacevole”,
non “bello”);piuttosto è il piacere dell’oggetto che viene prodotto a priori da un
giudizio universale della ragione.
Resta,
è vero, in Kant e soprattutto nella cultura romantica, un rapporto privilegiato
del bello con il bene (pensiamo all’enfasi posta da Friedrich Schiller
sull’estetica come educazione alla libertà), ma anche in questo caso il bene
cui la bellezza conduce costituisce un puro ideale, un dover-essere che per sua
natura eccede il piano dell’esistente, e anzi trova tutta la sua forza e la sua
suggestione nel prospettare – con l’immaginazione e la fantasia – ciò che la
ragione non sarebbe mai capace di cogliere con i concetti.
La “possibilità” estetica della
bellezza viene sempre più a coincidere con la sua “impossibilità” reale o oggettiva. Non a caso Hegel (nelle sue Lezioni di estetica),
proprio nel momento in cui afferma che la bellezza artistica supera di gran
lunga quella naturale, poiché è una «bellezza generata e rigenerata dallo
spirito», sostiene che l’arte stessa è destinata alla “morte” perché il suo
contenuto spirituale deborderà sempre di più dagli schemi della sua
rappresentazione sensibile.
Nello
spazio aperto da questa morte o impossibilità, è stato Theodor W. Adorno, nella
sua Teoria estetica(1970),
a rendere nella maniera più chiara e direi più struggente la separazione
inevitabile dell’esperienza estetica dalla realtà esistente di fatto.
Quest’ultima è sempre “schiacciata” sotto il peso della sua identità, cioè essa
“è quello che è” e non può che essere così. L’“estetico” invece costituisce
un’antitesi rispetto all’esistente, una presa di distanza rispetto al principio
di realtà. In ogni vera opera d’arte diviene così possibile un non-esistente,
una realtà non-effettiva, come una promessa che, di fatto, non si potrà mai
compiere. In tal modo l’arte, nel suo apparire di bellezza e di forma, promette
e insieme tradisce, e l’apparenza stessa non vale più come traccia di un
possibile, ma come consapevole illusione o mero inganno, appunto perché ciò a
cui ci rimanda è impossibile.
Certo,
nell’estetica novecentesca possiamo rintracciare anche dei tentativi di ridare
uno spessore “ontologico” o di “verità” all’esperienza del bello, come ad
esempio nell’ermeneutica di Hans-Georg
Gadamer. Ma proprio parlando della verità estetica, egli conferma
clamorosamente che la bellezza non ci fa
conoscere niente della realtà stessa; o meglio: ci fa conoscere la realtà
solo in quanto essa è una produzione
culturale all’interno di un canone linguistico condiviso da
un’umanità storica (cfr. L’attualità
del bello, 1977). Il bello non è solo qualcosa che, evidentemente,
si offre alla nostra interpretazione, ma è qualcosa il cui essere consiste
appunto nell’essere-interpretato, e cioè in definitiva nell’essere un prodotto
ermeneutico.
Se
Gadamer ha dato voce alla tradizione continentale, Nelson Goodman ha invece
espresso in maniera paradigmatica l’approccio al problema dal punto di vista
della tradizione analitica americana. Egli afferma con decisione che l’arte, e
quindi la percezione estetica, possiede senz’altro un valore conoscitivo, o
meglio essa è un’«attività cognitiva» al pari della scienza, ma proprio perché
da parte sua la conoscenza – estetica o scientifica che sia – considera la
realtà come un prodotto del linguaggio o meglio, dei diversi sistemi simbolici
con cui percepiamo, e quindi “facciamo” il mondo (worldview come worldmaking). Per
questo Goodman afferma: «Che la natura imiti l’arte [come avrebbero detto Hegel e
Gadamer] è una massima troppo prudente. La natura è un prodotto
dell’arte e del discorso» (I
linguaggi dell’arte, 1976).
Di
fronte a questa ambigua condizione della bellezza, divisa tra un’impossibilità
a “realizzarsi” (cioè ad essere “reale”) e una realizzazione prodotta dalle
possibilità storico-linguistiche dell’interpretazione, nasce l’idea che forse
essa ha bisogno di essere “liberata” paradossalmente da questa sua condizione
di ostaggio dell’estetica, per poter tornare a mostrarsi e a parlarci nella sua
propria lingua. Forse varrebbe la pena ipotizzare che la bellezza non debba essere compresa
innanzitutto a partire dal “gusto” soggettivo o dalla creazione spirituale o
dalla interpretazione culturale, bensì a partire dalla stessa percezione che
noi abbiamo della realtà.
C’è
una testimonianza che ha segnato – tra le altre – in maniera per me decisiva la
storia di questo problema. È quella offertaci da Agostino d’Ippona nel X libro
delle sue Confessioni (397-400), lì dove egli descrive il modo in cui il
nostro«io interiore» (ego interior) giunge a conoscere il significato ultimo
della realtà con l’aiuto del nostro «io esteriore» (per exterioris
ministerium), o più precisamente, il modo in cui il mio “animo” conosce il dono
dell’essere per mezzo dei sensi del corpo (Conf. X, 6.9). Ma il contesto di
questa descrizione è particolarmente significativo: Agostino vuol sapere chi è
il suo Dio, vale a dire dove può localizzare quel significato che si è rivelato
a lui come una presenza amorosa attraverso gli incontri, gli avvenimenti, i
drammi stessi della sua vita. E comincia con l’interrogare le cose fuori di
lui: il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che incontra nell’universo.
Con le mie domande – scrive
Agostino –porto il mio sguardo sulle cose (interrogatio mea, intentio mea), e
le cose da parte loro mi rispondono attraverso la loro forma di bellezza (et
responsio eorum, species eorum: Conf. X, 6.9). E tutte – proprio in quanto
appaiono come belle – gli rispondono: non siamo noi quello che cerchi, «non
siamo noi il tuo Dio», perché siamo state fatte.
Il
problema che si pone a questo punto è: come ci parla la bellezza delle cose? E
perché la risposta che essa dà alla nostra interrogazione non è intesa da
tutti? Infatti, se da un lato la bellezza appare a tutti gli esseri dotati di
sensi, dall’altro lato essa non parla a tutti nella stessa maniera. Gli animali
per esempio la vedono, sì, ma non la capiscono, poiché essi «sono incapaci di
fare domande», e non possiedono quella «ragione giudicante» (iudex ratio) che
serve a decifrare e valutare i messaggi che arrivano dai sensi. Gli uomini,
invece, proprio in quanto «sono capaci di fare domande» (interrogare possunt),
possono scorgere il Dio invisibile attraverso il creato visibile (Conf. X,
6.10).
Le
cose dunque «rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare»; la loro
voce, cioè la loro bellezza non cambia, ma si presenta in modo diverso a chi la
vede soltanto e a chi invece la vede e insieme l’interroga. Così, «pur
presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per
l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa
voce ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono» (sed
illi intellegunt, qui eius vocem acceptam foris intus cum veritate conferunt).
La
bellezza è percepita veramente in un’esperienza di dialogo e di corrispondenza
tra l’io e la realtà, tra l’interno e l’esterno, tra ciò che è percepito
sensibilmente e il suo senso percepito razionalmente. Nell’invito che la
bellezza rivolge al nostro io, grazie alla voce che ci chiama attraverso il
fascino della forma (species), l’io è letteralmente “mosso” ad essere se
stesso. Esso esisteva, certo, come possibilità di esercitare una funzione
percettiva, ma ora, ascoltando quell’invito e chiedendo il “perché” di quella
voce, il nostro io è “preso” o “afferrato” dalla realtà: e così esso può
emergere, può venir fuori nella sua piena soggettività.
Per Agostino la bellezza
delle cose non si identifica con il mero aspetto estetico, ma con l’ordine,
l’armonia e la ragione profonda per cui esse esistono. Per questo, proprio in
quanto giudicata“bella”, la realtà si manifesta nel suo significato; e
viceversa il significato vero delle cose o si manifesta attraverso la sua
bellezza oppure non è.
La
bellezza denota così la scoperta dell’invisibile attraverso il visibile, ma non
come un’aggiunta o un mero “al di là” rispetto a quello che vediamo
sensibilmente, bensì come la condizione stessa della possibilità del visibile.
Noi vediamo sensibilmente le cose attorno a noi, ma non ne vediamo alla stessa
maniera il senso. Eppure, se non percepissimo il senso di quelle cose probabilmente
non le vedremmo neanche, o meglio, le “guarderemmo”, sì, senza però
“vederle”realmente
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