[…] il mezzo di
comunicazione è diventato così pesante da cancellare, o quasi, il proprio
contenuto. E non dipende affatto dal mezzo: sia Twitter, sia Facebook, sia i
blog, sia la posta elettronica, sia la vecchia cara carta stampata contengono una percentuale sempre crescente
di opacità, di resistenza al senso, e quindi alla discussione, alla
comunicazione del pensiero, alla collaborazione, all’ascolto. Ma la colpa,
sia chiaro, non è affatto di questi mezzi, che sono i diffusori, i megafoni di
qualcosa che sta prima. Il problema è l’uso che ci siamo abituati a fare della
parola.
Conseguenza di
una parola ridotta a potere è che la
cronaca ha la pretesa di farsi storia. Chi, per esempio, ha il potere di
indicare al mondo quali sono stati i dieci eventi fondamentali della storia
ritiene di avere anche il potere di far passare alla storia il proprio
giudizio: i posteri raccoglieranno quei dieci fatti, per gli uomini del futuro
la storia sarà quella e non un’altra. Chi ha il potere di indicare i cento
romanzi imperdibili pensa che le biblioteche si riempiranno di quei cento
romanzi, che la gente li leggerà prima di leggerne altri, che gli altri forse
non verranno mai nemmeno letti, o magari verranno buttati via, a causa di quei
cento lì, ai quali è stato concesso, viceversa, il pass per la sopravvivenza.
Voi mi darete del
visionario (che per un romanziere è un complimento), però bisogna che ci
domandiamo che cos’è la storia. Il
rischio è che, in un modo o nell’altro, anche noi accettiamo la violenza delle
parole brandite come un potere da esercitare, e che alla fine anche noi ci
abituiamo a pensare che le cose stanno proprio come ci vengono imposte da
coloro che ritengono, essendo i cronisti del nostro mondo, di definirne anche
la storia.
Ma la storia è
un’altra cosa. Non un magazzino di vecchie cronache e di vecchi ricordi, di
foto in b/n e di film di repertorio (le mondine, Auschwitz, Pasolini che parla,
il crollo delle Twin Towers, il XX congresso del Pcus...) ma la continua, mai scontata
riflessione alla quale l’uomo libero non rinuncia per nessuna ragione, e che
riguarda il rapporto dell’uomo – del singolo come di un popolo o di una
civiltà– con la sua memoria: rapporto che si costituisce non per accumulo ma
per un esercizio di fedeltà.
Perché la memoria
storica prenda forma, è infatti necessario essere stati ed essere fedeli a
qualcosa: a un valore incontrato, a un sacrificio compiuto, ai volti dei testimoni
di un’idea di bellezza o di giustizia, e così via. È necessario conservare
qualcosa di caro – come le icone nascoste dalle vecchie contadine al tempo
delle persecuzioni staliniane – sottraendolo a quel discorso comune, a quel
teatro delle parole che vorrebbe occupare ogni millimetro della nostra anima.
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2012/9/6/Ci-vuole-la-croce/318265/
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2012/5/31/Cosa-siamo-senza-famiglia-/286165/
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2012/5/10/La-dittatura-dei-parolai-/2/277177/
Giobbe, Manzoni e noi di Luca Doninelli
l'editoriale di martedì 6 settembre 2011
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