BERLUSCONISMO/ La fine di un "sogno" nato nel '68
Alessandro Banfi intervista Massimo Borghesi
per leggere l'intero art. http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2011/11/9/BERLUSCONISMO-La-fine-di-un-sogno-nato-nel-68/215863/
DIMISSIONI DI BERLUSCONI. La lunga agonia che sta accompagnando le ultime fasi della legislatura del governo Berlusconi e il disagio di molti davanti alla situazione politica rendono necessaria una riflessione su Silvio Berlusconi e il berlusconismo. Tenendo presente che l’Italia è il Paese del “servo encomio e del codardo oltraggio” è il momento di approfondire culturalmente l’analisi di questo fenomeno. Magari prendendo le mosse dal finale della Mostra sulla Sussidiarietà presentata al Meeting di Rimini, che ricordava i giudizi di Pier Paolo Pasolini e Augusto Del Noce sulla società opulenta. Ne parliamo con Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale nell’Università di Perugia.
Professore, è finito un mondo?
La percezione che stavamo vivendo la fine di un'epoca era molto diffusa da tempo. Non si tratta solo di un fenomeno italiano. Il tramonto del berlusconismo è un momento di una crisi più ampia: quella che avvolge, in questo momento, l’orizzonte ideale di tutto il mondo occidentale. Noi stiamo assistendo, anche a seguito della grave debacle economico-finanziaria, alla crisi del modello di vita e di costume che, inaugurato negli anni Ottanta con Reagan e la signora Thatcher, ha contrassegnato la stagione del post-’89. Il crollo del comunismo, l’era della globalizzazione, hanno visto il trionfo di un capitalismo sicuro di sé, incurante di regole, teso unicamente alla massimizzazione dei profitti. Un capitalismo finanziario non più legato al binomio ricchezza-lavoro. Questa affermazione è stata supportata da una visione dell’uomo di tipo hobbesiano – "homo homini lupus" – che ha fatto carta straccia di tutti i valori di equità e di solidarietà. Un rampantismo coniugato con una visione ludica della vita per la quale ai “superuomini” tutto era concesso, dal lusso ai piaceri. Il libertinismo è l’altra faccia del business. Il risultato è una “mutazione antropologica” profonda, diagnosticata da Pasolini e da Del Noce già a metà degli anni Settanta.
Professore, è finito un mondo?
La percezione che stavamo vivendo la fine di un'epoca era molto diffusa da tempo. Non si tratta solo di un fenomeno italiano. Il tramonto del berlusconismo è un momento di una crisi più ampia: quella che avvolge, in questo momento, l’orizzonte ideale di tutto il mondo occidentale. Noi stiamo assistendo, anche a seguito della grave debacle economico-finanziaria, alla crisi del modello di vita e di costume che, inaugurato negli anni Ottanta con Reagan e la signora Thatcher, ha contrassegnato la stagione del post-’89. Il crollo del comunismo, l’era della globalizzazione, hanno visto il trionfo di un capitalismo sicuro di sé, incurante di regole, teso unicamente alla massimizzazione dei profitti. Un capitalismo finanziario non più legato al binomio ricchezza-lavoro. Questa affermazione è stata supportata da una visione dell’uomo di tipo hobbesiano – "homo homini lupus" – che ha fatto carta straccia di tutti i valori di equità e di solidarietà. Un rampantismo coniugato con una visione ludica della vita per la quale ai “superuomini” tutto era concesso, dal lusso ai piaceri. Il libertinismo è l’altra faccia del business. Il risultato è una “mutazione antropologica” profonda, diagnosticata da Pasolini e da Del Noce già a metà degli anni Settanta.
Tra la cultura berlusconiana e quella degli anni Settanta, post-sessantottina, c’è rottura assoluta o sussiste una qualche forma di continuità?
Questa è una domanda interessante. L’era berlusconiana, che non coincide solo con Berlusconi, ma racchiude, in qualche modo, anche i governi di centro-sinistra, per un aspetto si distingue nettamente dalla cultura sessantottina, sino a rappresentarne l’antitesi; per un altro, però, ne prolunga le conseguenze luddistiche che non trovano espressione solo nello sdoganamento dell’eros diventato fenomeno di massa, ma anche nel ruolo conferito all’immaginario: “l’immaginazione al potere”. È interessante, da questo punto di vista, la controversia che ha diviso, recentemente, Gianni Vattimo, teorico del post-moderno, dal suo antico discepolo Maurizio Ferraris, approdato ad un New Realism. L’accusa che Ferraris muove a Vattimo è quella per cui la posizione culturale post-moderna, per la quale “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ha trovato, di fatto, la sua realizzazione nel populismo mediatico che contrassegna l’epoca berlusconiana. Il postmodernismo, affermato da Vattimo come emancipazione da ogni autorità e verità, rappresenta la consacrazione del vuoto televisivo e dei suoi idoli. La cultura della sinistra erede del ’68, nell’analisi di Ferraris, non solo appare impotente di fronte alla nuova destra, ludica e tecnocratica, ma in qualche modo la legittima. La nuova destra è il punto di realizzazione della sinistra, spogliata delle sue richieste egualitariste e intellettuali.
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